Una delle più grandi incongruenze: fame e spreco, insieme
Una delle più grandi incongruenze del nostro tempo è questa: mentre una parte del mondo muore di fame, un’altra continua a sprecare cibo. E lo spreco non riguarda solo i Paesi ricchi: accade anche tra chi è povero, quando mancano competenze di conservazione e trasformazione, strumenti semplici, energia stabile o perfino la conoscenza delle etichette — la dicitura «da consumarsi entro» non è «preferibilmente entro».
I numeri parlano da soli. Nel 2022 il mondo ha sprecato 1,05 miliardi di tonnellate di cibo: circa il 19% di quanto disponibile per i consumatori, oltre un miliardo di pasti buttati ogni giorno; il 60% dello spreco è avvenuto in famiglia, il 28% nella ristorazione, il 12% nel retail. Nel 2024, mentre lo spreco restava enorme, circa 673 milioni di persone hanno sofferto la fame e oltre 295 milioni hanno vissuto insicurezza alimentare acuta. Questo è il paradosso che ci riguarda.
Noi di ASeS veniamo dalla terra, dalla pratica quotidiana degli agricoltori italiani. Abbiamo messo la formazione al centro perché lo spreco si riduce prima di tutto con la conoscenza: programmare semine e raccolte, usare l’acqua con criterio, conservare correttamente, trasformare vicino ai campi, accorciare la filiera. Il nostro faro sono gli SDGs, perché proprio questi sono stati la “benzina” del nostro operato: Fame Zero, Acqua pulita, Consumo e produzione responsabili, Parità di genere, Lavoro dignitoso e Partnership.
In Paraguay abbiamo lavorato con comunità rurali e istituzioni locali per organizzare la produzione, introdurre trasformazioni semplici e diffuse e aprire canali di vendita di prossimità, grazie anche a un mercatino rurale che consente di vendere direttamente al consumatore. Così abbiamo perso meno prodotto e abbiamo tenuto più valore sul territorio.
In Africa abbiamo agito in contesti diversi con lo stesso metodo. In Mozambico abbiamo unito agricoltura, acqua e nutrizione: orti, piccoli allevamenti, educazione alimentare, trasformazione e servizi sanitari territoriali hanno ridotto scarti e malnutrizione. In Senegal e in altri paesi africani abbiamo puntato su tecniche efficienti d’irrigazione, sementi di qualità e trasformazione locale; donne e giovani hanno assunto un ruolo da protagonisti nella gestione d’impresa, con meno perdite post-raccolta e prezzi più stabili. Abbiamo condiviso metodi e formazione in rete con partner accademici e sanitari, perché la resilienza si costruisce anche trasferendo competenze tra Paesi.
In Italia abbiamo lavorato soprattutto in aree interne e montane: magazzini che funzionano, laboratori di trasformazione, filiere corte e gestione attenta dell’acqua. Qui “spreco zero” ha voluto dire strutture affidabili, stagionalità rispettata, recupero dei saperi antichi, valorizzazione dei territori, borse lavoro e comunità che sono tornate nei luoghi di produzione.
Il filo è uno solo: formare per trasformare. Dove sono arrivate competenze, strumenti semplici e reti locali, lo spreco è sceso e il cibo è aumentato nei piatti. Non abbiamo usato i nostri valori, che tra l’altro coincidono con gli SDGs: li abbiamo fatti crescere progetto dopo progetto, con una regola di fondo che per noi resta non negoziabile: rispetto. Per le persone, per la terra, per ciò che abbiamo e per ciò che non è nostro ma ci ospita.
Se vogliamo davvero cambiare rotta, non basta produrre di più: dobbiamo perdere di meno. È quello che abbiamo fatto in Paraguay, in Africa e in Italia. Ed è quello che continueremo a fare, perché la dignità passa da campi che producono, famiglie che mangiano, comunità che restano.